racconto storico
racconto storico
Estratto dal romanzo "Identità in conflitto - Africa e dintorni”
Mi chiedo sempre quando scoprii cosa stesse realmente succedendo.
Beh, tutto è avvenuto alla caduta della giunta militare: avevo poco più di vent’anni
allora. Stavo viaggiando in terza classe che, nella maggior parte dei traghetti
greci, consisteva in un largo ponte scoperto, affollato e noiosamente sicuro, ma nel
mio caso, per qualche strana ragione, si trattava invece di un piccolissimo ponte
coperto, e tutti i passeggeri erano soldati.
Stavo mettendo in pratica un piacevole invito da parte di Jerome per conoscere un
po’ la Grecia, i suoi usi e le consuetudini. Quando m’invitò era durante una di
quelle serate nella farm di Lusaka ad ammirar le stelle e i nostri teneri ma
alquanto fumosi discorsi vertevano su un ipotetico e lontano rapporto di coppia.
Magari questo invito sarebbe stato il preludio o avrebbe magari sancito un
fidanzamento ufficiale?
Quando ripenso a quel giorno, quando ricordo come smisero tutti di
parlare mentre
trascinavo la mia valigia su un sedile vuoto, come fissarono gli occhi su di me
mentre si davano gomitate e ridacchiavano e si atteggiavano a fare gli eroi, il mio
primo pensiero fu: perché non ho chiesto di cambiare la classe del biglietto? Il mio
secondo pensiero: però, com’era stato meraviglioso attirare tanta attenzione.
A quel tempo, morsa dalla paura, non lo apprezzai affatto. E così, stancamente, feci
tutte le solite cose per evitare il peggio. Tirai fuori un cardigan e mi coprii le
braccia nude, in modo da non essere troppo appariscente. Tenni gli occhiali da sole
e mi misi in testa un cappello di tela spiegazzato.
Come il traghetto prese a costeggiare il tratto fra il Pireo e Capo Sunio, presi a
fissare il mio libro cercando di darmi un contegno e pensando soprattutto
all’accoglienza che mi avrebbero riservato Jerome e suo padre.
Feci di tutto per non notare il pallone che avevano preso a passarsi l’un l’altro, e
che qualche volta lanciavano proprio nella mia direzione. Feci finta di non capire
la loro animata discussione in greco sulla mia possibile nazionalità. Ma poi, quando
girammo dietro al promontorio e raggiungemmo il mare aperto, il vento mi fece volar
via il cappello maldestramente appoggiato sulla testa e lo sbatté
contro una scialuppa di salvataggio. Uno dei soldati me lo recuperò e io commisi
l’errore di ringraziarlo.
Credo di dover spiegare che anche dire grazie in quelle circostanze, in quel
periodo, fosse come avere un messaggio scritto in fronte che suonava come: straniera
bionda, dai facili costumi, venuta in questa nazione con il solo scopo di subire uno
stupro di gruppo.
“Signorrina! Come ti chiama? Tuo paese? 𝘉𝘪𝘵𝘵𝘦 𝘴𝘤𝘩𝘰̈𝘯, 𝘴𝘬𝘰𝘭,
𝘮𝘢𝘥𝘦𝘮𝘰𝘪𝘴𝘦𝘭𝘭𝘦, 𝘭𝘢𝘥𝘺, 𝘷𝘰𝘶𝘭𝘦𝘻-𝘷𝘰𝘶𝘴 𝘤𝘰𝘶𝘤𝘩𝘦𝘳 𝘢𝘷𝘦𝘤
𝘮𝘰𝘪? ”
Sulle prime, furono divertiti dal mio rifiuto di rispondere alle loro domande. Poi
incominciarono a innervosirsi. Quando uno dei soldati attraversò il ponte per venire
a leggere l’etichetta sulla mia valigia informai, per lo più in inglese, che lui e
suoi amici dovevano andarsene immediatamente perché non avevo nessuna voglia di
parlare con loro.
Ricordo come rimasero sbalorditi quando mi sentirono parlare in inglese intercalato
con alcune parole di greco. Dopo un lungo silenzio, uno dei soldati, mimando le
posture di una scimmia, venne a sedersi di fronte a me, si girò verso i suoi amici e
disse, facendo finta di essere un orango: “Perché questa donna africana è in Grecia
se non vuole parlare con i greci? Capace solo di grattarsi?” E intanto fingeva, come
uno scimmione, di sfregarsi il torace e la testa trascinando i commilitoni in una
fragorosa risata.
Venni subito additata come un essere inferiore tanto che un suo amico esordì con:
“Dovremmo darle una lezione.” Si alzò in piedi, attraversò il ponte e si piazzò alla
mia destra. Presi la mia valigia, che era alla mia sinistra, e la misi tra me e lui.
Poi un altro soldato attraversò il ponte e si sedette proprio dov’era prima la
valigia. La spostai quindi sul sedile più vicino al portello che comunicava con il
bar della seconda classe. Poi uno di loro scese di sotto per squadrarmi dal basso,
tra le assicelle, allora mi alzai e apostrofai i soldati dando loro dei selvaggi che
pubblicamente rappresentavano un motivo di vergogna per il loro paese.
Chiesi aiuto dal portello e fortunatamente riuscii ad attirare l’attenzione di uno
steward della seconda classe. Era un uomo basso e nerboruto, con capelli e baffi
neri che contornavano due occhi grandi, neri, bovini. In un misto di inglese e
greco, dopo aver urlato ai soldati ora silenziosi e sfuggenti, non solo che erano
dei selvaggi, ma anche degli imbecilli che con il loro stupido atteggiamento
minacciavano di distruggere l’industria del turismo nazionale, lo steward si offrì
di salvarmi dalle loro attenzioni sistemandomi in una cabina di seconda classe.
Pensavo fosse in buona fede, ma appena entrai nella cabina lui mi seguì e chiuse a
chiave la porta dietro di sé. Mi inchiodò alla parete dicendo in tono lamentoso:
“Finalmente! Finalmente!”
Quando gli spiegai che aveva frainteso, lui mi rispose: “Stai mentendo, sento che ti
piaccio e vorresti il mio amore.”
“Vi prego di scusarmi se vi sembrerò troppo smaliziata ma, anche se adesso vi potrà
suonare strano, mi sono trovata talmente tante volte in situazioni come questa che
so esattamente come comportarmi.”
Gli raccontai una storia strappalacrime di un mio fidanzato turco che sarebbe
arrivato ad aspettarmi al molo di Naxos.
“Anch’io sono di origine turca ma da due generazioni. Cosa diavolo ci fa un turco
sulle nostre isole durante la giunta militare?” Chiese con un tono allarmato e
violento lo
steward. Gli spiegai che era follemente innamorato di me ed esperto conoscitore di
svariate arti
marziali. Siamo stati promessi fin dall’infanzia dalle nostre famiglie che hanno
attività in comune a
Pretoria, raccontai, ma ora che ero rimasta disonorata, dissi allo steward, era
chiaro, per me, che avrei
dovuto rompere il fidanzamento. L’onore mi avrebbe costretto ad annunciare la triste
notizia al mio
fiero fidanzato faccia a faccia. Lo pregai di avvertirmi quando la nave avrebbe
fatto scalo a Naxos.
Gli promisi che sarei risalita a bordo da donna libera e mi sarei data a lui per
sempre. Mi appellai
alla sua parte migliore e lui ci cascò.
Si riassestò, il suo petto tremante di indulgenza maschile. “Mia cara,” disse mentre
apriva la porta “mi sembri stanca. Devi rimetterti in forze prima di raggiungere
Naxos. Perché
non ti riposi un po’?”
“No.” Gli risposi, precipitandomi davanti a lui nel corridoio. “La nostra
conversazione mi ha rianimata e non vedo l’ora di respirare l’aria del mare!”
Ignorando la mia volontà,
quando tornammo in mezzo alla gente, non mi lasciò andare vicino al mare. Insistette
perché
stessi con lui dall’altra parte del bancone del bar puzzolente e appartato della
seconda classe.
Ogni volta che un soldato usciva dal portello, non necessariamente per guardare, ma
anche solo per bere o per mangiare un pezzo di cioccolata, lo steward sibilava:
“Bada a dove
guardi, la ragazza è mia.”
Quando approdammo a Naxos, mi afferrò il braccio e mi spinse fuori sul ponte della
seconda classe, che velocemente si stava svuotando, indicandomi la folla agitata
incastrata
fra il traffico di
coloro che sbarcavano, le lastre di marmo, le montagne di sacchi di patate e domandò
in tono
perentorio: “Dov’è lui?”
“Non lo vedo.” Gli risposi.
Strinse la presa sul mio braccio e guardò fisso sulla folla come se avesse un
fucile. “No,” fece
poi “no, io vengo con te.”
Quando protestai, lui ribatté: “Stai zitta, donna, dammi la valigia.”
Al diavolo, decisi allora, perché avrei dovuto proteggerlo? Lo seguii giù per le
scale lungo il molo. Ad aspettarmi non c’era il mio fidanzato turco ma Jerome,
avvolto in un doppio
petto bianco, con un fazzolettino azzurro (scoprii poi essere la bandiera greca) e
suo padre in
tenuta da ufficiale della marina ellenica.
Entrambi studiarono lo steward, che buttò la mia valigia di fronte a Jerome, e
incrociò le braccia nude sul petto gonfio.
“Chi è questo?” Mi chiese il commodoro Manos.
“È lo steward della seconda classe che ha appena cercato di stuprarmi.” Gli spiegai.
Jerome e suo padre erano decisamente più alti dello steward e, oltre a
ciò, erano
avvantaggiati dal fattore sorpresa legato ad una uniforme militare.
Il commodoro Manos in cinque secondi inchiodò lo steward per terra. Allora iniziò il
divertimento, almeno per me. Era una situazione davvero grottesca.
La folla che si stava raccogliendo intorno a noi fu dapprima più incuriosita che
offesa. “Quello
sotto è un greco o uno straniero?” Si chiedevano tra loro. Quando scoprirono che
quello che stava
sotto era un turco mentre quello sopra era sì greco, ma aveva vissuto molto in giro
per il mondo, un
uomo fece a un altro: “Sicuramente l’ufficiale greco ha tutto il diritto di sedersi
sopra un turco!”
“Il commodoro Nestor Manos è uno di noi.” Spiegò un signore anziano. “Porta i suoi
figli qui
quasi ogni anno e organizza riunioni importanti con diversi ufficiali accompagnati
dalle loro
famiglie. La sua casa è nel Kastro. Questo è suo figlio, un bravo giovane che gioca
a calcio sempre
con mio nipote.”
Girando la testa verso chi stava parlando lo steward protestò: “Questa donna mi ha
mentito!”
Jerome borbottò sottovoce a suo padre: “Di’ a questi perditempo che il turco è uno
stupratore.”
Mentre stavano bisbigliando sull’evolversi della vicenda, il capitano del porto si
fece largo tra la
folla.
“Oh, Mr. Manos! Mr. Manos che cosa è successo?”
All’unisono tutti quanti cercarono di spiegare ancora una volta l’accaduto. E così
la storia si fece
ancora più confusa. Il capitano cercò di convincere il padre di Jerome a far
rialzare lo steward in
modo da permettere ai tre uomini di andare nella baracca che fungeva da ufficio per
parlare
civilmente.
Il Commodoro Manos rispose che avrebbe liberato lo steward solo per lasciarlo in
custodia alla
polizia. “Mr. Manos,” lo implorò il capitano del porto “per l’amore della Vergine
Maria, non
dovremmo capire che cosa è realmente accaduto prima di coinvolgere la polizia?”
Ma subito dopo che ebbe parlato, la folla cominciò lentamente ad aprirsi. L’uomo che
si piantò
di fronte a noi non era in uniforme, ma il modo in cui la folla si dimostrava
riverente nei suoi
confronti non lasciava alcun dubbio sul fatto che avesse sbattuto molti dei loro
familiari in galera
come prigionieri politici. Come ho detto, eravamo nel periodo della giunta militare
al potere. Il
poliziotto in borghese ordinò al commodoro di alzarsi.
Quando il padre di Jerome non obbedì, e suo figlio si lasciò sfuggire impropriamente
l’epiteto
«fascista», il poliziotto in borghese si rivolse in tedesco al capitano del porto
chiarendo che se il
commodoro non avesse ancora una volta obbedito al suo ordine, l’avrebbe accusato
tanto di
resistenza a pubblico ufficiale quanto di aggressione e di percosse. Questo, almeno,
secondo il
tedesco.
Non capii esattamente cosa il capitano del porto avesse riferito a padre e figlio.
Non conoscevo
allora, come adesso, la lingua greca.
Jerome, a vicenda conclusa, mi rese edotto di un paio di particolari: il capitano
del porto era
stato, fin da giovane, il miglior amico di bevute di Mr. Manos. Inoltre il tedesco,
cercando di
tradurre fedelmente, riuscì a rendere le cose ancor più complicate: prima di tutto
dicendo a Mr. Manos e a Jerome con un difficile eufemismo che era imprudente dare
del fascista a
un ufficiale del
regime militare, poi cercando di spiegare alla folla che lo steward era uno
stupratore.
“Come puoi affermare una cosa di questo genere?” gridò una donna. “Lui non può
essere uno
stupratore. Ormai è uno di noi, è un greco.” Si rivolse al capitano del porto: “Come
può accettare un
insulto simile da un tedesco?”
“Quest’uomo può anche essere un tedesco” urlò un’altra donna “ma e un brava persona.
Affitta
una casa da mio fratello.”
“Si” fece eco un signore anziano “e magari potresti raccontare alla gente come ha
conosciuto tuo
fratello, e in quale affare erano immischiati insieme tuo fratello e questo
brav’uomo tedesco
nell’inverno del 1943.”
“Cosa stai cercando di dirmi, che mio fratello era un collaborazionista?”
“No, voglio dire che questo tuo tedesco ha imparato il greco dagli eroi
che ha
ucciso durante l’occupazione.”
“Come potete dire queste falsità?” Grido il tedesco in greco. “Nel 1943 avevo
solo
tredici anni!
Per quanto tempo ancora dovrò portare il peso della malvagità dei miei antenati?
Cosa dovrò fare
per riparare ai loro errori?”
Dopo aver terminato con questa forte affermazione che comunque non cancellava
spiragli di
nuovo collaborazionismo con l’attuale giunta militare, il poliziotto in borghese
scelse qui e là
alcune persone tra la folla per far alzare mio padre dallo steward della seconda
classe, il quale
prontamente sparì sulla sua nave, che levò l’ancora non appena lui fu salito a
bordo.
La folla si disperse. Il capitano del porto cercò di esprimere la propria
solidarietà guardandosi
nervosamente alle spalle per assicurarsi che il poliziotto non lo stesse osservando.
Ero ansiosa di andare via dal molo prima che Jerome chiamasse ancora una volta
fascista il
poliziotto, così tentai di prendere la mia valigia e incominciai a seguire Mr. Manos
e il capitano del
porto che parlottavano sotto voce.
Jerome mi afferrò la valigia.
“Perché sei arrabbiato con me?” Gli chiesi.
“Non sono arrabbiato con te.” Urlò a denti stretti. “Sono arrabbiato con questi
fascisti.” Ma ben
presto si arrabbiò anche con suo padre del quale non tollerava la vicinanza
ideologica con questo
nuovo regime.
“ Ma tu non puoi dare del fascista a un poliziotto fascista davanti a tutti!”
Replicai.
“Se non vuole essere chiamato fascista, non dovrebbe comportarsi come un fascista!
Posso
capire gli affari ma mi risulta difficile accettare che per affari si debba vendere
la propria anima.”
Ci incamminammo, seguendo a debita distanza i due saggi in divisa militare,
iniziando a parlare
delle cose che ci accomunavano: i nostri caratteri, gli studi, la farm e le amicizie
comuni.
Attraversammo una piazzetta alberata dove alcuni tavoli apparecchiati, con bicchieri
mezzi pieni e
piatti sporchi, denotavano l’abbandono in modo affrettato di una festa.
“Era uno dei tanti «panigiri», quelle feste pagane che si svolgono in moltissime
isole delle
Cicladi.” M’informò Jerome “In realtà, sono dei veri e propri riti che si svolgono
in coincidenza con
festività cristiane, ma che rivelano chiaramente, sia nelle musiche che nelle
coreografie, robuste
radici pagane risalenti alla notte dei tempi. Il loro significato va ben oltre il
semplice festeggiamento
di questo o quel santo, come pretesto per far bisboccia: prima di tutto, sono un
modo per gli abitanti
di riaffermare con fierezza la propria appartenenza alla comunità e la propria
identità culturale.”
Arrivati a casa ci sedemmo a tavola per una cena a base di un’orrenda zuppa di
pomodoro e riso,
la Campbell’s Cream of Tomato. Anche i negozi di alimentari erano ormai chiusi.
“Mi chiedo che cosa stia succedendo.” Annunciò gravemente Mr. Manos con voce sottile
rivolgendosi all’amico capitano Agapios. Jerome, tentando di smorzare la tensione,
assentì: “Magari
hai provocato un incidente internazionale.”
Lui lo zittì e in tono autoritario: “Non essere banale!” E intanto gli sfuggì un
pugno sul tavolo.
Scese il silenzio. Dovevano essere le dieci di sera. Eravamo seduti sulla terrazza,
che dava sulla
città e sul porto.
“Normalmente, a quest’ora, il lungomare avrebbe dovuto essere pieno di bighelloni
notturni. Di bambini che si arrampicavano sulle lastre di marmo e sui sacchi di
patate. Qualche
ragazzino avrebbe dovuto giocare a calcio nella piazzetta proprio sotto di noi. Per
la strada
si sarebbero dovute sentire cinguettare le prime coppiette dirette ai locali
sull’isola.” Mi sussurrò
Jerome in modo che però tutti potessero sentire.
Ma quella sera non c’era in giro nessuno.
“Mi pento di non aver comperato il giornale quando era ancora possibile. Sicuramente
sta succedendo qualcosa.” Affermò Mr. Manos “Sembra che in questo posto sia scattato
una
sorta di allarme rosso.”
Dopo un altro lungo silenzio, rivolto ad Agapios, aggiunse: “Mi chiedo come mai
nessuno ci
abbia avvertito.”
Mi permisi di suggerire: “Penso che tutti e due stiate dimenticando come sia
semplice creare dei fraintendimenti in una nazione straniera, com’è avvenuto al
molo, e quanto siano
pericolosi in caso di un’emergenza.”
“Non stavo insinuando che ci fosse una reale emergenza.” Rispose Mr. Manos. “Stavo
parlando ipoteticamente…”
Fu proprio dopo l’ipotetica dichiarazione che lo sentimmo per la prima volta. Era un
boato,
quella specie di boato che ricorda il lontano rumore delle eliche di uno squadrone
di elicotteri.
Tranne che per il fatto che non lo sentivamo provenire dal cielo. Veniva dalla
città, ma non da un
posto della città in particolare. Veniva da ogni parte.
“Che cos’e stato?” Jerome chiese a suo padre.
“Non lo so, peccato che non sia riuscito a prendere quel maledetto giornale.”
Udimmo di nuovo il boato tanto che Agapios commentò: “È come se venisse da sotto la
città.”
Rivolgendosi a Mr. Manos che rispose: “Mi chiedo se significhi che la giunta è
caduta. Se mi fossi
ricordato del giornale, non saremmo qui a tirare a indovinare…”
Ma prima che avesse il tempo di continuare a rimuginare, ecco il terzo boato,
quest’ultimo corto
e acuto, come se l’intera città fosse stata schiaffeggiata dalla mano di un gigante.
Jerome saltò in piedi e tornò col suo transistor. “Cerchiamo di capire cosa dicono
alla radio.”
Non riuscimmo a sintonizzarci su World Service o su Voice of America e neppure su
Radio
Tirana, la stazione sulla quale di solito ripiegavamo. Allora cercammo di provare
con delle stazioni
greche ma i radiocronisti parlavano troppo velocemente perché io potessi capire.
“È fatta!” disse Agapios riferendosi all’amico di bevute “Io e te andiamo laggiù a
scoprire da soli
da dove viene questo boato.”
“Se proprio volete cacciarvi nei guai, vi seguo? Ma non potreste aspettare fino a
domani?”
“Non ti passa neanche per la testa” gli rispose suo padre in tono severo “che domani
potrebbe essere troppo tardi?”
Uscimmo dal Kastro passando dal cancello principale e ci dirigemmo verso l’agorà.
Alle dieci di
una sera normale, il lungomare sarebbe stato pieno di bambini e madri e nonne. Ma
quella sera
l’unica persona che incontrammo fu la moglie del comandante di una nave cargo.
Quando Mr.
Manos le chiese dove fosse suo marito, lei scrollò le spalle in modo insolitamente
scortese e rispose
che era al bar.
A rompere il silenzio udimmo, da un giradischi a tutto volume, le note di «Rain and
tears» con
la struggente voce di Demis Roussos accompagnato da Vangelis all’organo: «Rain and
tears are the
same, but in the sun you’ve got to play the game.» Rimasi colpita perché Jerome mi
aveva fatto
conoscere, giusto l’anno prima, le canzoni scritte e interpretate dagli Aphrodite’s
Child. Amava la
musica rock greca e i Beatles, dei quali mi raccontava del loro esordio al Cavern in
Matthew Street
a Liverpool, uno scantinato per giovani gruppi emergenti, luogo che gli sarebbe
tanto piaciuto
frequentare. Un giusto compromesso musicale nei confronti dei rispettivi genitori.
Mentre continuavamo il nostro cammino sul lungomare in direzione del bar, Jerome
sbottò:
“Speravo che tu non indossassi questi pantaloncini. Non sono un abbigliamento
serale.”
“Lo sai” gli risposi “che anche se indossassi un lenzuolo continuerebbero a
fissarmi.”
“Quello che voglio dire è che non devi rendere la vita ancora più difficile di
quello che già è,
almeno qui in Grecia. Non mi va di recitare il ruolo del babbeo, di quello che
subisce di striscio gli
sguardi di giovanotti arrapati in cerca di avventure.”
“Ma da voi le donne si devono vestire come suore?”
Nel frattempo eravamo arrivati al bar. Non c’era nessuno seduto ai tavolini di
fuori. Non c’erano neanche le sedie. Erano tutti dentro, tutti quelli che non
avremmo voluto
incontrare. C’era il
poliziotto in borghese, tutti gli uomini che avevano offeso Mr. Manos mentre era
seduto sul turco.
Quando esplosero in un boato per la prima volta, pensai che fosse perché avevano
notato il nostro arrivo. Ma mi sbagliai, perché i loro occhi erano fissi su un
piccolissimo
televisore che il
proprietario del bar teneva sopra il frigorifero dove conservava i budini di riso e
le barrette di
baklava. Era il primo televisore che vedevo sull’isola di Naxos.
Una voce indistinta stava commentando con foga gli eventi, ma lo schermo era
tutto a
strisce ere e bianche. L’assenza dell’immagine non dissuadeva il pubblico di uomini
dall’allungare il collo per guardare lo schermo. Non mi piacque ammetterlo,
ma ricordo che domandai a me stessa:
“Che cosa diavolo stanno vedendo in quello schermo di più interessante rispetto a
me, visto che sono l’unica donna del locale?”
Jerome dovette aver notato il mio disappunto perché, dopo che gli amici del capitano
del porto e di Mr. Manos si furono seduti con noi e ci ebbero portato da bere,
mi mise una mano sulla spalla e mi suggerì con un leggero sorriso:
“Mi aspetto da te che ti atteggerai il più possibile per fingere di divertirti.
Dopo il tuo comportamento al porto di oggi, è il minimo che tu possa
fare.”
Allora simulai di essere catturata dal telecronista. All’inizio, come facevo di
solito, interpretai il senso delle sue istruzioni obbedendo alla lettera.
Applaudivo quando gli uomini che mi stavano attorno applaudivano,
battevo sul tavolo quando loro battevano sul tavolo, mi
disperavo quando loro si disperavano.
E poi guardai l’orologio, che sembrava essersi fermato alle
dieci e ventisette.
Altri tre minuti, dissi a me stessa mentre guardavo la lotta della lancetta che
faticava a muoversi.
Altri tre minuti e non m’importa cosa dicono, è il massimo che io possa sopportare
seduta qui a fare tutte queste mosse fingendo interesse per un qualcosa che intuivo
ma che non capivo nella sostanza.
Ma ecco cosa accadde proprio quando ero al limite della sopportazione e avevo usato
tutte le mie difese. E non potei farci niente. Dai miei più profondi e intimi
recessi,
al di là della mia volontà e
della mia comprensione, salì come un’onda calda, inebriante: il boato!
Erano le 22.30 del 24 luglio del 1974: fine del regime dei colonnelli.
Sono autore e commediografo, in cerca di contaminazioni culturali
Ho all'attivo la pubblicazione di decine tra romanzi, racconti e sceneggiature.
Oggi mi dedico a creare occasioni di scambio culturale col pubblico grazie alla realizzazione di
eventi, recital e presentazioni che coinvolgono attori, musicisti e artisti visivi a partire dalla mia
parola scritta.
I miei ultimi romanzi:
"Dubbi e tensioni di
un giovane investigatore" (Macchione, 2024)
"Identità in conflitto - Africa e dintorni"
(Placebook Publishing, 2023)