Agios il mio fidanzato greco

racconto storico

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Daniele Ossola

Agios il mio fidanzato greco

racconto storico

Estratto dal romanzo "Identità in conflitto - Africa e dintorni”


Mi chiedo sempre quando scoprii cosa stesse realmente succedendo.
Beh, tutto è avvenuto alla caduta della giunta militare: avevo poco più di vent’anni allora. Stavo viaggiando in terza classe che, nella maggior parte dei traghetti greci, consisteva in un largo ponte scoperto, affollato e noiosamente sicuro, ma nel mio caso, per qualche strana ragione, si trattava invece di un piccolissimo ponte coperto, e tutti i passeggeri erano soldati.
Stavo mettendo in pratica un piacevole invito da parte di Jerome per conoscere un po’ la Grecia, i suoi usi e le consuetudini. Quando m’invitò era durante una di quelle serate nella farm di Lusaka ad ammirar le stelle e i nostri teneri ma alquanto fumosi discorsi vertevano su un ipotetico e lontano rapporto di coppia. Magari questo invito sarebbe stato il preludio o avrebbe magari sancito un fidanzamento ufficiale?

Quando ripenso a quel giorno, quando ricordo come smisero tutti di parlare mentre trascinavo la mia valigia su un sedile vuoto, come fissarono gli occhi su di me mentre si davano gomitate e ridacchiavano e si atteggiavano a fare gli eroi, il mio primo pensiero fu: perché non ho chiesto di cambiare la classe del biglietto? Il mio secondo pensiero: però, com’era stato meraviglioso attirare tanta attenzione. A quel tempo, morsa dalla paura, non lo apprezzai affatto. E così, stancamente, feci tutte le solite cose per evitare il peggio. Tirai fuori un cardigan e mi coprii le braccia nude, in modo da non essere troppo appariscente. Tenni gli occhiali da sole e mi misi in testa un cappello di tela spiegazzato.
Come il traghetto prese a costeggiare il tratto fra il Pireo e Capo Sunio, presi a fissare il mio libro cercando di darmi un contegno e pensando soprattutto all’accoglienza che mi avrebbero riservato Jerome e suo padre.
Feci di tutto per non notare il pallone che avevano preso a passarsi l’un l’altro, e che qualche volta lanciavano proprio nella mia direzione. Feci finta di non capire la loro animata discussione in greco sulla mia possibile nazionalità. Ma poi, quando girammo dietro al promontorio e raggiungemmo il mare aperto, il vento mi fece volar via il cappello maldestramente appoggiato sulla testa e lo sbatté contro una scialuppa di salvataggio. Uno dei soldati me lo recuperò e io commisi l’errore di ringraziarlo.

Credo di dover spiegare che anche dire grazie in quelle circostanze, in quel periodo, fosse come avere un messaggio scritto in fronte che suonava come: straniera bionda, dai facili costumi, venuta in questa nazione con il solo scopo di subire uno stupro di gruppo.
“Signorrina! Come ti chiama? Tuo paese? 𝘉𝘪𝘵𝘵𝘦 𝘴𝘤𝘩𝘰̈𝘯, 𝘴𝘬𝘰𝘭, 𝘮𝘢𝘥𝘦𝘮𝘰𝘪𝘴𝘦𝘭𝘭𝘦, 𝘭𝘢𝘥𝘺, 𝘷𝘰𝘶𝘭𝘦𝘻-𝘷𝘰𝘶𝘴 𝘤𝘰𝘶𝘤𝘩𝘦𝘳 𝘢𝘷𝘦𝘤 𝘮𝘰𝘪? ”
Sulle prime, furono divertiti dal mio rifiuto di rispondere alle loro domande. Poi incominciarono a innervosirsi. Quando uno dei soldati attraversò il ponte per venire a leggere l’etichetta sulla mia valigia informai, per lo più in inglese, che lui e suoi amici dovevano andarsene immediatamente perché non avevo nessuna voglia di parlare con loro.

Ricordo come rimasero sbalorditi quando mi sentirono parlare in inglese intercalato con alcune parole di greco. Dopo un lungo silenzio, uno dei soldati, mimando le posture di una scimmia, venne a sedersi di fronte a me, si girò verso i suoi amici e disse, facendo finta di essere un orango: “Perché questa donna africana è in Grecia se non vuole parlare con i greci? Capace solo di grattarsi?” E intanto fingeva, come uno scimmione, di sfregarsi il torace e la testa trascinando i commilitoni in una fragorosa risata.
Venni subito additata come un essere inferiore tanto che un suo amico esordì con: “Dovremmo darle una lezione.” Si alzò in piedi, attraversò il ponte e si piazzò alla mia destra. Presi la mia valigia, che era alla mia sinistra, e la misi tra me e lui. Poi un altro soldato attraversò il ponte e si sedette proprio dov’era prima la valigia. La spostai quindi sul sedile più vicino al portello che comunicava con il bar della seconda classe. Poi uno di loro scese di sotto per squadrarmi dal basso, tra le assicelle, allora mi alzai e apostrofai i soldati dando loro dei selvaggi che pubblicamente rappresentavano un motivo di vergogna per il loro paese.
Chiesi aiuto dal portello e fortunatamente riuscii ad attirare l’attenzione di uno steward della seconda classe. Era un uomo basso e nerboruto, con capelli e baffi neri che contornavano due occhi grandi, neri, bovini. In un misto di inglese e greco, dopo aver urlato ai soldati ora silenziosi e sfuggenti, non solo che erano dei selvaggi, ma anche degli imbecilli che con il loro stupido atteggiamento minacciavano di distruggere l’industria del turismo nazionale, lo steward si offrì di salvarmi dalle loro attenzioni sistemandomi in una cabina di seconda classe.
Pensavo fosse in buona fede, ma appena entrai nella cabina lui mi seguì e chiuse a chiave la porta dietro di sé. Mi inchiodò alla parete dicendo in tono lamentoso: “Finalmente! Finalmente!”
Quando gli spiegai che aveva frainteso, lui mi rispose: “Stai mentendo, sento che ti piaccio e vorresti il mio amore.”
“Vi prego di scusarmi se vi sembrerò troppo smaliziata ma, anche se adesso vi potrà suonare strano, mi sono trovata talmente tante volte in situazioni come questa che so esattamente come comportarmi.”

Gli raccontai una storia strappalacrime di un mio fidanzato turco che sarebbe arrivato ad aspettarmi al molo di Naxos.
“Anch’io sono di origine turca ma da due generazioni. Cosa diavolo ci fa un turco sulle nostre isole durante la giunta militare?” Chiese con un tono allarmato e violento lo steward. Gli spiegai che era follemente innamorato di me ed esperto conoscitore di svariate arti marziali. Siamo stati promessi fin dall’infanzia dalle nostre famiglie che hanno attività in comune a Pretoria, raccontai, ma ora che ero rimasta disonorata, dissi allo steward, era chiaro, per me, che avrei dovuto rompere il fidanzamento. L’onore mi avrebbe costretto ad annunciare la triste notizia al mio fiero fidanzato faccia a faccia. Lo pregai di avvertirmi quando la nave avrebbe fatto scalo a Naxos. Gli promisi che sarei risalita a bordo da donna libera e mi sarei data a lui per sempre. Mi appellai alla sua parte migliore e lui ci cascò.
Si riassestò, il suo petto tremante di indulgenza maschile. “Mia cara,” disse mentre apriva la porta “mi sembri stanca. Devi rimetterti in forze prima di raggiungere Naxos. Perché non ti riposi un po’?”
“No.” Gli risposi, precipitandomi davanti a lui nel corridoio. “La nostra conversazione mi ha rianimata e non vedo l’ora di respirare l’aria del mare!” Ignorando la mia volontà, quando tornammo in mezzo alla gente, non mi lasciò andare vicino al mare. Insistette perché stessi con lui dall’altra parte del bancone del bar puzzolente e appartato della seconda classe.
Ogni volta che un soldato usciva dal portello, non necessariamente per guardare, ma anche solo per bere o per mangiare un pezzo di cioccolata, lo steward sibilava: “Bada a dove guardi, la ragazza è mia.”

Quando approdammo a Naxos, mi afferrò il braccio e mi spinse fuori sul ponte della seconda classe, che velocemente si stava svuotando, indicandomi la folla agitata incastrata fra il traffico di coloro che sbarcavano, le lastre di marmo, le montagne di sacchi di patate e domandò in tono perentorio: “Dov’è lui?”
“Non lo vedo.” Gli risposi.
Strinse la presa sul mio braccio e guardò fisso sulla folla come se avesse un fucile. “No,” fece poi “no, io vengo con te.”
Quando protestai, lui ribatté: “Stai zitta, donna, dammi la valigia.”
Al diavolo, decisi allora, perché avrei dovuto proteggerlo? Lo seguii giù per le scale lungo il molo. Ad aspettarmi non c’era il mio fidanzato turco ma Jerome, avvolto in un doppio petto bianco, con un fazzolettino azzurro (scoprii poi essere la bandiera greca) e suo padre in tenuta da ufficiale della marina ellenica.
Entrambi studiarono lo steward, che buttò la mia valigia di fronte a Jerome, e incrociò le braccia nude sul petto gonfio.
“Chi è questo?” Mi chiese il commodoro Manos.
“È lo steward della seconda classe che ha appena cercato di stuprarmi.” Gli spiegai.

Jerome e suo padre erano decisamente più alti dello steward e, oltre a ciò, erano avvantaggiati dal fattore sorpresa legato ad una uniforme militare. Il commodoro Manos in cinque secondi inchiodò lo steward per terra. Allora iniziò il divertimento, almeno per me. Era una situazione davvero grottesca. La folla che si stava raccogliendo intorno a noi fu dapprima più incuriosita che offesa. “Quello sotto è un greco o uno straniero?” Si chiedevano tra loro. Quando scoprirono che quello che stava sotto era un turco mentre quello sopra era sì greco, ma aveva vissuto molto in giro per il mondo, un uomo fece a un altro: “Sicuramente l’ufficiale greco ha tutto il diritto di sedersi sopra un turco!”
“Il commodoro Nestor Manos è uno di noi.” Spiegò un signore anziano. “Porta i suoi figli qui quasi ogni anno e organizza riunioni importanti con diversi ufficiali accompagnati dalle loro famiglie. La sua casa è nel Kastro. Questo è suo figlio, un bravo giovane che gioca a calcio sempre con mio nipote.”
Girando la testa verso chi stava parlando lo steward protestò: “Questa donna mi ha mentito!”
Jerome borbottò sottovoce a suo padre: “Di’ a questi perditempo che il turco è uno stupratore.”
Mentre stavano bisbigliando sull’evolversi della vicenda, il capitano del porto si fece largo tra la folla.
“Oh, Mr. Manos! Mr. Manos che cosa è successo?”
All’unisono tutti quanti cercarono di spiegare ancora una volta l’accaduto. E così la storia si fece ancora più confusa. Il capitano cercò di convincere il padre di Jerome a far rialzare lo steward in modo da permettere ai tre uomini di andare nella baracca che fungeva da ufficio per parlare civilmente.
Il Commodoro Manos rispose che avrebbe liberato lo steward solo per lasciarlo in custodia alla polizia. “Mr. Manos,” lo implorò il capitano del porto “per l’amore della Vergine Maria, non dovremmo capire che cosa è realmente accaduto prima di coinvolgere la polizia?” Ma subito dopo che ebbe parlato, la folla cominciò lentamente ad aprirsi. L’uomo che si piantò di fronte a noi non era in uniforme, ma il modo in cui la folla si dimostrava riverente nei suoi confronti non lasciava alcun dubbio sul fatto che avesse sbattuto molti dei loro familiari in galera come prigionieri politici. Come ho detto, eravamo nel periodo della giunta militare al potere. Il poliziotto in borghese ordinò al commodoro di alzarsi.
Quando il padre di Jerome non obbedì, e suo figlio si lasciò sfuggire impropriamente l’epiteto «fascista», il poliziotto in borghese si rivolse in tedesco al capitano del porto chiarendo che se il commodoro non avesse ancora una volta obbedito al suo ordine, l’avrebbe accusato tanto di resistenza a pubblico ufficiale quanto di aggressione e di percosse. Questo, almeno, secondo il tedesco.
Non capii esattamente cosa il capitano del porto avesse riferito a padre e figlio. Non conoscevo allora, come adesso, la lingua greca.
Jerome, a vicenda conclusa, mi rese edotto di un paio di particolari: il capitano del porto era stato, fin da giovane, il miglior amico di bevute di Mr. Manos. Inoltre il tedesco, cercando di tradurre fedelmente, riuscì a rendere le cose ancor più complicate: prima di tutto dicendo a Mr. Manos e a Jerome con un difficile eufemismo che era imprudente dare del fascista a un ufficiale del regime militare, poi cercando di spiegare alla folla che lo steward era uno stupratore. “Come puoi affermare una cosa di questo genere?” gridò una donna. “Lui non può essere uno stupratore. Ormai è uno di noi, è un greco.” Si rivolse al capitano del porto: “Come può accettare un insulto simile da un tedesco?”
“Quest’uomo può anche essere un tedesco” urlò un’altra donna “ma e un brava persona. Affitta una casa da mio fratello.”
“Si” fece eco un signore anziano “e magari potresti raccontare alla gente come ha conosciuto tuo fratello, e in quale affare erano immischiati insieme tuo fratello e questo brav’uomo tedesco nell’inverno del 1943.”
“Cosa stai cercando di dirmi, che mio fratello era un collaborazionista?”

“No, voglio dire che questo tuo tedesco ha imparato il greco dagli eroi che ha ucciso durante l’occupazione.”
“Come potete dire queste falsità?” Grido il tedesco in greco. “Nel 1943 avevo solo tredici anni! Per quanto tempo ancora dovrò portare il peso della malvagità dei miei antenati?
Cosa dovrò fare per riparare ai loro errori?” Dopo aver terminato con questa forte affermazione che comunque non cancellava spiragli di nuovo collaborazionismo con l’attuale giunta militare, il poliziotto in borghese scelse qui e là alcune persone tra la folla per far alzare mio padre dallo steward della seconda classe, il quale prontamente sparì sulla sua nave, che levò l’ancora non appena lui fu salito a bordo.
La folla si disperse. Il capitano del porto cercò di esprimere la propria solidarietà guardandosi nervosamente alle spalle per assicurarsi che il poliziotto non lo stesse osservando. Ero ansiosa di andare via dal molo prima che Jerome chiamasse ancora una volta fascista il poliziotto, così tentai di prendere la mia valigia e incominciai a seguire Mr. Manos e il capitano del porto che parlottavano sotto voce.
Jerome mi afferrò la valigia.
“Perché sei arrabbiato con me?” Gli chiesi.
“Non sono arrabbiato con te.” Urlò a denti stretti. “Sono arrabbiato con questi fascisti.” Ma ben presto si arrabbiò anche con suo padre del quale non tollerava la vicinanza ideologica con questo nuovo regime.
“ Ma tu non puoi dare del fascista a un poliziotto fascista davanti a tutti!” Replicai.
“Se non vuole essere chiamato fascista, non dovrebbe comportarsi come un fascista! Posso capire gli affari ma mi risulta difficile accettare che per affari si debba vendere la propria anima.”
Ci incamminammo, seguendo a debita distanza i due saggi in divisa militare, iniziando a parlare delle cose che ci accomunavano: i nostri caratteri, gli studi, la farm e le amicizie comuni.
Attraversammo una piazzetta alberata dove alcuni tavoli apparecchiati, con bicchieri mezzi pieni e piatti sporchi, denotavano l’abbandono in modo affrettato di una festa. “Era uno dei tanti «panigiri», quelle feste pagane che si svolgono in moltissime isole delle Cicladi.” M’informò Jerome “In realtà, sono dei veri e propri riti che si svolgono in coincidenza con festività cristiane, ma che rivelano chiaramente, sia nelle musiche che nelle coreografie, robuste radici pagane risalenti alla notte dei tempi. Il loro significato va ben oltre il semplice festeggiamento di questo o quel santo, come pretesto per far bisboccia: prima di tutto, sono un modo per gli abitanti di riaffermare con fierezza la propria appartenenza alla comunità e la propria identità culturale.”
Arrivati a casa ci sedemmo a tavola per una cena a base di un’orrenda zuppa di pomodoro e riso, la Campbell’s Cream of Tomato. Anche i negozi di alimentari erano ormai chiusi. “Mi chiedo che cosa stia succedendo.” Annunciò gravemente Mr. Manos con voce sottile rivolgendosi all’amico capitano Agapios. Jerome, tentando di smorzare la tensione, assentì: “Magari hai provocato un incidente internazionale.”
Lui lo zittì e in tono autoritario: “Non essere banale!” E intanto gli sfuggì un pugno sul tavolo.
Scese il silenzio. Dovevano essere le dieci di sera. Eravamo seduti sulla terrazza, che dava sulla città e sul porto.
“Normalmente, a quest’ora, il lungomare avrebbe dovuto essere pieno di bighelloni notturni. Di bambini che si arrampicavano sulle lastre di marmo e sui sacchi di patate. Qualche ragazzino avrebbe dovuto giocare a calcio nella piazzetta proprio sotto di noi. Per la strada si sarebbero dovute sentire cinguettare le prime coppiette dirette ai locali sull’isola.” Mi sussurrò Jerome in modo che però tutti potessero sentire.
Ma quella sera non c’era in giro nessuno.
“Mi pento di non aver comperato il giornale quando era ancora possibile. Sicuramente sta succedendo qualcosa.” Affermò Mr. Manos “Sembra che in questo posto sia scattato una sorta di allarme rosso.”
Dopo un altro lungo silenzio, rivolto ad Agapios, aggiunse: “Mi chiedo come mai nessuno ci abbia avvertito.”

Mi permisi di suggerire: “Penso che tutti e due stiate dimenticando come sia semplice creare dei fraintendimenti in una nazione straniera, com’è avvenuto al molo, e quanto siano pericolosi in caso di un’emergenza.”
“Non stavo insinuando che ci fosse una reale emergenza.” Rispose Mr. Manos. “Stavo parlando ipoteticamente…”
Fu proprio dopo l’ipotetica dichiarazione che lo sentimmo per la prima volta. Era un boato, quella specie di boato che ricorda il lontano rumore delle eliche di uno squadrone di elicotteri.
Tranne che per il fatto che non lo sentivamo provenire dal cielo. Veniva dalla città, ma non da un posto della città in particolare. Veniva da ogni parte.
“Che cos’e stato?” Jerome chiese a suo padre.
“Non lo so, peccato che non sia riuscito a prendere quel maledetto giornale.” Udimmo di nuovo il boato tanto che Agapios commentò: “È come se venisse da sotto la città.”
Rivolgendosi a Mr. Manos che rispose: “Mi chiedo se significhi che la giunta è caduta. Se mi fossi ricordato del giornale, non saremmo qui a tirare a indovinare…”
Ma prima che avesse il tempo di continuare a rimuginare, ecco il terzo boato, quest’ultimo corto e acuto, come se l’intera città fosse stata schiaffeggiata dalla mano di un gigante. Jerome saltò in piedi e tornò col suo transistor. “Cerchiamo di capire cosa dicono alla radio.”
Non riuscimmo a sintonizzarci su World Service o su Voice of America e neppure su Radio Tirana, la stazione sulla quale di solito ripiegavamo. Allora cercammo di provare con delle stazioni greche ma i radiocronisti parlavano troppo velocemente perché io potessi capire. “È fatta!” disse Agapios riferendosi all’amico di bevute “Io e te andiamo laggiù a scoprire da soli da dove viene questo boato.”
“Se proprio volete cacciarvi nei guai, vi seguo? Ma non potreste aspettare fino a domani?”
“Non ti passa neanche per la testa” gli rispose suo padre in tono severo “che domani potrebbe essere troppo tardi?”
Uscimmo dal Kastro passando dal cancello principale e ci dirigemmo verso l’agorà. Alle dieci di una sera normale, il lungomare sarebbe stato pieno di bambini e madri e nonne. Ma quella sera l’unica persona che incontrammo fu la moglie del comandante di una nave cargo. Quando Mr. Manos le chiese dove fosse suo marito, lei scrollò le spalle in modo insolitamente scortese e rispose che era al bar.
A rompere il silenzio udimmo, da un giradischi a tutto volume, le note di «Rain and tears» con la struggente voce di Demis Roussos accompagnato da Vangelis all’organo: «Rain and tears are the same, but in the sun you’ve got to play the game.» Rimasi colpita perché Jerome mi aveva fatto conoscere, giusto l’anno prima, le canzoni scritte e interpretate dagli Aphrodite’s Child. Amava la musica rock greca e i Beatles, dei quali mi raccontava del loro esordio al Cavern in Matthew Street a Liverpool, uno scantinato per giovani gruppi emergenti, luogo che gli sarebbe tanto piaciuto frequentare. Un giusto compromesso musicale nei confronti dei rispettivi genitori. Mentre continuavamo il nostro cammino sul lungomare in direzione del bar, Jerome sbottò:
“Speravo che tu non indossassi questi pantaloncini. Non sono un abbigliamento serale.”
“Lo sai” gli risposi “che anche se indossassi un lenzuolo continuerebbero a fissarmi.”
“Quello che voglio dire è che non devi rendere la vita ancora più difficile di quello che già è, almeno qui in Grecia. Non mi va di recitare il ruolo del babbeo, di quello che subisce di striscio gli sguardi di giovanotti arrapati in cerca di avventure.”
“Ma da voi le donne si devono vestire come suore?”
Nel frattempo eravamo arrivati al bar. Non c’era nessuno seduto ai tavolini di fuori. Non c’erano neanche le sedie. Erano tutti dentro, tutti quelli che non avremmo voluto incontrare. C’era il poliziotto in borghese, tutti gli uomini che avevano offeso Mr. Manos mentre era seduto sul turco.
Quando esplosero in un boato per la prima volta, pensai che fosse perché avevano notato il nostro arrivo. Ma mi sbagliai, perché i loro occhi erano fissi su un piccolissimo televisore che il proprietario del bar teneva sopra il frigorifero dove conservava i budini di riso e le barrette di baklava. Era il primo televisore che vedevo sull’isola di Naxos.

Una voce indistinta stava commentando con foga gli eventi, ma lo schermo era tutto a strisce ere e bianche. L’assenza dell’immagine non dissuadeva il pubblico di uomini dall’allungare il collo per guardare lo schermo. Non mi piacque ammetterlo, ma ricordo che domandai a me stessa:
“Che cosa diavolo stanno vedendo in quello schermo di più interessante rispetto a me, visto che sono l’unica donna del locale?” Jerome dovette aver notato il mio disappunto perché, dopo che gli amici del capitano del porto e di Mr. Manos si furono seduti con noi e ci ebbero portato da bere, mi mise una mano sulla spalla e mi suggerì con un leggero sorriso:
“Mi aspetto da te che ti atteggerai il più possibile per fingere di divertirti. Dopo il tuo comportamento al porto di oggi, è il minimo che tu possa fare.”
Allora simulai di essere catturata dal telecronista. All’inizio, come facevo di solito, interpretai il senso delle sue istruzioni obbedendo alla lettera. Applaudivo quando gli uomini che mi stavano attorno applaudivano, battevo sul tavolo quando loro battevano sul tavolo, mi disperavo quando loro si disperavano.
E poi guardai l’orologio, che sembrava essersi fermato alle dieci e ventisette.
Altri tre minuti, dissi a me stessa mentre guardavo la lotta della lancetta che faticava a muoversi.
Altri tre minuti e non m’importa cosa dicono, è il massimo che io possa sopportare seduta qui a fare tutte queste mosse fingendo interesse per un qualcosa che intuivo ma che non capivo nella sostanza.
Ma ecco cosa accadde proprio quando ero al limite della sopportazione e avevo usato tutte le mie difese. E non potei farci niente. Dai miei più profondi e intimi recessi, al di là della mia volontà e della mia comprensione, salì come un’onda calda, inebriante: il boato!
Erano le 22.30 del 24 luglio del 1974: fine del regime dei colonnelli.

Daniele Ossola - scrittore e regista

Sono autore e commediografo, in cerca di contaminazioni culturali
Ho all'attivo la pubblicazione di decine tra romanzi, racconti e sceneggiature.

Oggi mi dedico a creare occasioni di scambio culturale col pubblico grazie alla realizzazione di eventi, recital e presentazioni che coinvolgono attori, musicisti e artisti visivi a partire dalla mia parola scritta.


I miei ultimi romanzi:
"Dubbi e tensioni di un giovane investigatore" (Macchione, 2024)
"Identità in conflitto - Africa e dintorni" (Placebook Publishing, 2023)

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