TRA DUE SPONDE

TRA DUE SPONDE

 

                                                                                   I
Nella grande cucina della Rocca viscontea di Somma Lombardo le fiamme del caminetto ardono rabbiosamente.

Poldo, seduto accanto al fuoco, fissa con intensità quelle fiamme e i suoi pensieri vagano, nel silenzio, per la sua mente e ne ha paura. Non è suo compito pensare; basta il suo Signore per questo. Lui deve solo eseguire, ubbidire.
Poldo si gira di scatto. Il Conte Albino Aldrovandi, Signore della Rocca, s’è alzato dalla panca dov’era seduto e s’è avvicinato al suo fido attendente: “Poldo, Poldo” gli dice posando paternamente una mano sulla sua spalla, “cosa fai ancora qui? È già molto tardi; su, vai a casa e bada bene che risollevino il ponte dal fossato. Se dovesse piovere, fermati pure un giorno in più. Tua madre non potrà che esserne felice. Va’ che Oleggio ti aspetta.”
Poldo rimane perplesso qualche istante. Cos’è quel tono di voce? Perché quelle parole? Non l’ha mai sentito il suo Signore parlargli così. Lui sempre tanto autoritario, arrogante e rude. Esita un momento, si alza, si gratta distrattamente la barba su una guancia, beve l’ultimo sorso di vino dalla ciotola posata sul tavolaccio e, con un verso che pare un grugnito, saluta Aldrovandi ed esce.

Fuori cade una pioggerella sottile, noiosa e fredda. Poldo attraversa la passerella di legno sul fossato e, giunto sulla riva opposta, si gira a osservare il servitore che rialza il ponte. Si avvolge nel tabarro, porta la mano sul coltello che gli pende al fianco e s’incammina a lunghi passi verso casa. Il buio è intenso, come il freddo che penetra nelle ossa. “Una primavera tardiva.” Pensa. “Siamo già quasi a fine aprile…” Però, il profumo dell’erba inumidita di pioggia, della terra e delle viti inonda l’aria leggera. Respira a fondo, affretta l’andatura e presto scompare nell’oscurità della notte.

                                                                            II
Da giorni piove incessantemente sul Verbano e sui piccoli laghi posti a est. Il Ticino si è notevolmente ingrossato, lambendo la carreggiata dei ponti.

Poldo Brovelli, e un suo giovane amico, anche lui di Somma Lombardo, sono diretti alla Rocca, ma la piena del Ticino ostacola il loro rientro. Sono bloccati in una frazione di poche case di contadini nei pressi di Varallo Pombia, sulla sponda ovest del fiume. Il giovane si passa una mano sui lunghi capelli scomposti e fradici e si sporge dalla tettoia a scrutare il cielo plumbeo che pare li, a un palmo dal naso, da poterlo toccare.

“Ma si”, gli dice l’amico che con lui trova riparo dalla pioggia sotto la tettoia, “sono certo di quello che ti dico. L’ho vista bene io, coi miei occhi, la Rina buttarti occhiate da mangiarti con lo sguardo e poi passarti davanti, a braccetto di sua mamma, sotto i portici, come una signora, con lo scialle e le margherite tra i capelli di rame. Solo tu, gallinaccio, non te ne sei mai accorto. Se avessi tra le mani una come la Rina!…”

“Ha quasi smesso di piovere”, dice Poldo allungando un braccio per sincerarsene. Poi si volge all’amico, mentendo: “Ma va là, che Caterina non sa nemmeno che esisto al mondo!”
L’amico non risponde e i due giovani raccolgono insieme le loro cose e si avviano lungo la stradicciola delle lavandaie, tutta fango e pozzanghere. “Signur, quanto è piovuto!” dice ancora Poldo all’amico. “Ma quanta acqua sarà caduta in due giorni?”

Il compagno getta un’occhiata all’intorno, sui campi verdi zuppi di pioggia, e sospira. Le rondini volano ancora alte in cielo, mentre un solicello sbiadito e incerto si sforza di penetrare la coltre grigia ancora minacciosa.

Poldo guarda i suoi piedi, le scarpe nuove inzaccherate di melma. Ha un gesto di stizza. “Se non fosse piovuto così tanto sarei tornato a casa già ieri”, dice quasi tra sé. “Da quando lavoro con il mio nuovo Signore, Aldrovandi, a Oleggio ci vado cosi di rado!” Sbuffa, tossisce e sposta la sacca pesante sull’altra spalla. “E stato il mio Signore a insistere perché ieri sera me ne restassi a Oleggio. Dicono che il Ticino s’è ingrossato, che si può passare ma a fatica… mah!”

L’amico ascolta e non risponde. Ora fischietta allegro che vien voglia di ballare e Poldo si mette saltare, batte i piedi e piroetta. E ride e anche l’amico che si mette a ridere e a saltare.

“Davvero mi dici che Caterina…” Continuando a fingere.

“Ma sì, orbo d’un uomo che sei. Se ma capitass a mi vuna cume la Rina!…”

“Che dici, le parlo? E se la me manda a quel paes? Non è normale che per strada un servitore si metta a parlare con una gran damigella.”

L’amico riprende a fischiettare e Poldo a battere i piedi.
“In fondo lavorare in Rocca mi piace”, riprende Poldo “e con il Duca Aldrovandi mi trovo bene. È uno che sa far valere le sue ragioni, un combattente nato. Potrei parlargli e se anche Caterina volesse… potremmo vivere a Oleggio…”

“Ma se ta salta in ment, cusa ti ghé ‘n dal cò?” lo canzona l’amico, “che già ti ami? Solo perché ti mangia con gli occhi?” E corre via per evitare la pedata di Poldo che è rosso in volto e si morde la lingua per aver parlato.

E’ un segreto che non può essere svelato perché, al di là delle battute tra amici, solo l’idea di mettersi con Caterina è pura follia. Sarebbe stato osteggiato oltre che dai Durini (fatto più che normale) anche dai suoi parenti che si sarebbero trovati in un profondo disagio a fare da contorno a questo rapporto anomalo.                                                                    

                                                                            III
“Addì 10 aprile 1729
….. E cosi, stimatissima amica, sarà come a Dio piace. Per quel giovane sono pronta a tutto, ma proprio a tutto, mi capite? Provo per lui una passione che viene a sconvolgere i miei vent’anni; un ardore, una gioia, un sentimento che non credevo possibili, ma che crescono e si rinnovano di giorno in giorno. Lui mi contraccambia solo con tiepidi sguardi, le poche volte che ci incrociamo, lasciandomi però ben sperare. Con questa mia confessione chiudo, rinnovandovi i sentimenti della mia perfetta e fraterna stima. Caterina Durini”

Caterina, figlia di Alfonso, un pronipote della nobile casata dei Durini di Milano, si sofferma un attimo, alzando gli occhi come a voler cercare qualcosa da aggiungere nel “postscriptum”, poi rilegge ancora una volta la lettera e infine la piega e la chiude sigillandola.

Ha scelto questa soluzione di scrivere all’amica carissima di Milano perché non riesce più a tenere per sé il suo segreto. Deve condividere con qualcuno che comprenda il suo sentimento e la pazzia di cui è ormai vittima da diversi mesi. Con chi altro avrebbe potuto confidarsi? Con nessuno, di certo, a Oleggio, a Bellinzago, a Borgomanero o a Novara. Sarebbe stato un segreto troppo difficile da custodire e presto sarebbe giunto alle orecchie dei suoi che mai avrebbero accettato una cosa simile e l’avrebbero piuttosto spedita nel convento a Domodossola.

Caterina trae un profondo sospiro, si alza dallo scrittoio e prende a passeggiare lentamente su e giù per la stanza, tenendo strette le mani dietro la schiena. “Io li capisco”, pensa, “non posso non comprendere quello che proverebbero i miei genitori e mia zia. Ma il mio sentimento è più forte della ragione e dell’obbedienza filiale. Il mio amore sembra un ordine del Cielo, inderogabile e inoppugnabile”. In quell’umido pomeriggio di aprile, la villa dei conti Durini a Oleggio sembra immersa in un’atmosfera di sonnolenta pigrizia. Giunge dall’esterno la melodia dei tordi e lo stridio costante e svagato di qualche passerotto.

“Il corriere postale partirà tra due ore”, si dice Caterina prendendo dal tavolo la sua lettera e infilandola nel corpetto. “Sarà bene che mi affretti.” Esce dalla stanza e scende al pianoterra. Nella villa tutto è silenzio e una penombra fresca e riposante pervade camere e corridoi. Soltanto dalla cucina giungono le voci squillanti e ridanciane delle serve che rigovernano. Alza istintivamente la testa e pensa a Poldo che nella sua camera su, al piano alto, riposa. Si ferma, indugia, vorrebbe risalire le scale, raggiungere il giovane, stringerlo tra le braccia.

La sua fantasia lo considera già come domestico, cameriere o valletto al servizio di suo padre con la possibilità di insinuarsi nelle camere del sottotetto e condividere con lui fugaci attimi di dolcezza.
Da quando l’ha incrociato dai Pallavicino a Milano la prima volta, l’anno precedente (era già primavera e il suo amore era sbocciato con le viole del giardino), non pensa ad altro.

Vive le ore nell’attesa di un suo sguardo, di un improbabile tocco furtivo della mano, di un impossibile abbraccio carico d’intensità culminante con un bacio sulle sue labbra tenere e calde. Sorride e gioisce. “E’ strano”, pensa, “che questo mio amore, tanto difficile e sofferto, sia invece un tale stimolo alla gioia”. Vorrebbe salire, ma si trattiene. Le piace immaginarlo lassù ma è troppo rischioso, fuori dai canoni normali; è meglio essere prudenti. Sorride di nuovo.

È felice.
Caterina attraversa il giardino immaginando, nel contempo, di essere stesa nel proprio letto, e di non riuscire a dormire. Le gocce che battono sulle tegole la tengono sveglia. E poi, come potrebbe dormire? Il suo cuore è agitato e un turbinio di pensieri le sconvolge la mente. Raggiunge il portone, esce e subito imbocca la strada bianca e fangosa che conduce verso la piazza della chiesa con la pioggia che inizia a sferzarla con prepotenza.

                                                                              IV
Quando Poldo e l’amico giungono sul Ticino, davanti al ponte c’è una piccola ressa.

L’acqua del fiume è davvero alta; supera il ponte di barche di almeno una spanna, cosi a occhio, e la corrente è forte. I due giovani s’interrogano con lo sguardo.

“No, nooo!”, dice Poldo, “devo proprio passare, non se ne parla neppure. Stasera voglio essere a casa, che il mio padrone mi aspetta…”
“… e la Rina?” sbotta ridendo l’amico e salta per evitare il pugno che Poldo finge di volergli dare.
“Bastardo d’un amico…”
“Dunque, che si fa?”
“Si va.”

Nel frattempo, appena superato Sesto Calende, un barcone, carico di passeggeri diretti alla darsena di Milano, punta la prua verso Tornavento per poi proseguire lungo il Naviglio Grande. D’un tratto il vento si leva impetuoso. Le acque increspate del Verbano, quando l’alveo si restringe per diventare fiume, s’increspano fino a trasformarsi in flutti paurosi che scuotono la barca e questa s’inchina di lato, beccheggia, creando panico tra i passeggeri.

Il momento è tragico. L’improvviso vento di tramontana rischia di capovolgere la pesante imbarcazione e il Cadrega, l’esperto barcaiolo sestese, ordina di gettare l’ancora. Ma è un provvedimento inutile. La forza del vento sospinge ugualmente il natante che gira su se stesso nel tremendo vortice ondoso.
I passeggeri si aggrappano dove possono, urlano, pregano raccomandandosi a Dio, alla beata vergine Maria, ai loro santi protettori e alle anime del purgatorio, protettori delle barche e dei marinai.

Il Cadrega prende una decisione. Occorre levare l’ancora e virare, piuttosto che restare in balia di queste onde maligne, impossibili da decifrare, e del vento che continua a soffiare sempre più forte. Meglio ritornare verso Angera, lasciando spingere la vela dal vento.

I due marinai levano l’ancora, raccolgono i remi, issano la vela mentre il Cadrega afferra con forza il timone. Inizia la virata e le onde sollevano la barca, i passeggeri ruzzolano l’uno sull’altro, tra le casse dei bagagli, urlando, gridando e invocando sempre Dio e la Madonna.
Infine l’operazione è compiuta. Levata l’àncora e girate le spalle al vento, l’imbarcazione si dirige verso il centro del lago solcando le onde con agilità.

Sul ponte di barche un gruppo di quattro o cinque uomini, fattisi coraggio, si prendono per mano e in fila, i piedi nell’acqua, sfidano il fiume. Attentamente, un passo dopo l’altro, gli uomini attraversano il ponte sommerso e passano sulla sponda opposta, in prossimità della Maddalena. Altri fanno lo stesso.

“Andiamo?” dice Poldo.
L’amico indugia tra la voglia di tornare e il pericolo incombente che il fiume gli presenta davanti agli occhi.
“Ma si, che siamo quasi a casa e Somma ci aspetta”.
Si avvicinano all’acqua.
“Riesci a vedere il ponte? Attento a dove metti i piedi, che non c’è da scherzare!…”
Poldo si guarda le belle scarpe inzaccherate. Le aveva giusto acquistate ieri, prima della passeggiata sotto i portici. Si diceva, nel suo giro, che era dalle scarpe che si capiva se uno stava bene o meno. “Le mie scarpe buone…” pensa, e ha un attimo di esitazione. Di spogliarsi non ne ha voglia.
“Avanti, dammi la mano”, gli grida l’amico.
“No, un momento”, e ancora Poldo esita. Poi l’idea.

Li, a due passi, c’è un’asinella bigia con due occhioni neri e lucidi. Il giovane ride e riversa indietro il capo dai capelli scomposti e fradici. “Poi te la rimando!” grida al contadino lontano che sbraita e agita le braccia. Tira a sé l’asinella e le salta in groppa. “Su, bella, dai”, e sprona l’animale che si avvia sul ponte trotterellando.

“Ma che fai? Pazzo!” urla l’amico. “È pericoloso, scendi subito che se finisci in acqua sei spacciato!”

Poldo ride. “Occorre essere furbi, amico mio. Bagnati i tuoi piedi che ai miei ci penso da me”.
Anche gli altri presenti, dalle sponde opposte del fiume, gridano di scendere, di non pensarci a passare a quella maniera, che è pericoloso, che se si cade la vita è persa.

Poldo ride, sprona l’animale e l’asinella entra in acqua e piano piano giunge alla metà del ponte. Poi d’improvviso si arresta. “Via, non ti fermare!” esclama Poldo e sprona la povera bestia con calci e manate.

“Scendi da lì”, gli grida l’amico che lo segue. “Dai, che l’acqua si fa più fonda e non si può scherzare”.

                                                                           V
La giovane Caterina è ormai padrona dei suoi sentimenti.
Quando, la primavera scorsa, era giunta a Oleggio da Milano, dove aveva studiato arpa presso i Marchesi Pallavicino, e suo padre l’aveva presentata alla Marchesa Cornelia, lei non avrebbe mai pensato che proprio lì avrebbe conosciuto la pazzia dell’amore.

La Marchesa Cornelia era una donna cosi composta! Giovane e gentile. La ragazza aveva assistito a una scena dalla quale tutto era partito.

Poldo, in seguito a una leggera manchevolezza, si era inchinato, in segno di scusa, davanti alla signora e questa gli aveva posato una mano sul capo, invitandolo a sollevarsi. “Ci hanno parlato molto bene di te, Poldo, e sono sicura che continueremo ad andare d’accordo”, gli aveva detto sorridendo bonariamente. “Hai ampi margini per poter migliorare. Vedrai, sarai un eccellente cameriere”.

Col passare del tempo Caterina aveva percepito che qualcosa era andato a disturbare, in modo crescente, l’animo della Contessa che, nell’osservarla bene, aveva la fronte sempre corrugata e gli occhi che avevano smesso di brillare.

Forse si era accorta che lui era troppo bello e prestante per servire in casa sua. Una presenza pericolosa in mezzo alle sue figlie, giovani, belle e libere con l’aggiunta di lei, la figlia dell’amico di suo marito, che era spesso presente nei saloni della villa e durante le cene nobiliari.

Quando Caterina vide per la prima volta Poldo, ebbe subito un tuffo al cuore. Negli occhi del giovane aveva incontrato uno sguardo intenso che le era penetrato nell’anima e vi si era annidato come un serpente. Lei avrebbe voluto abbassare gli occhi, ma non ne era stata capace. Si sentiva incantata da quello sguardo fino a raggiungere la sfrontatezza.
Gli aveva sorriso con discrezione, ma il giovane non le aveva risposto subito e lei aveva compreso immediatamente che anche lui aveva letto qualcosa nei suoi occhi.

I fatti poi erano andati da sé.

Senza cercarsi, lei e Poldo, quante volte si erano trovati da soli, provando l’impulso di gettarsi nelle braccia l’una dell’altro! Per tutta la durata del suo soggiorno si era trattenuta nell’esprimere quel minimo di gentilezza che, se lasciata libera, avrebbe potuto far scatenare nel giovane insensati e frustranti momenti di possibile avvicinamento.

“Ma che speranze poteva avere lei, figlia di Alfonso Durini, notaio in Oleggio, di poter mai unire la propria vita, davanti a Dio e agli uomini, con quella di Poldo, cameriere e, da voci indiscrete, figlio dell’arrotino di Somma?” si era detta.

Ma era troppo forte, troppo bello quello che provava e nulla aveva potuto la ragione sui suoi sentimenti. Non avrebbe mai pensato, davvero, che proprio lì avrebbe conosciuto la pazzia dell’amore.

Al suo confronto, cos’era quello che credeva di provare per il giovane Filippo, che aspirava a divenir pittore, o per Riccardo, che era mastro contabile in Villa Torriani e che si pavoneggiava nella sua livrea di raso?

Caterina ha l’impulso di ridere e si porta una mano alla bocca, come se anche il riso dovesse essere tenuto segreto. L’anno prima, in un giorno d’estate, verso l’imbrunire, durante una passeggiata con Tommaso sul lungolago di Arona, mentre ammirava il profilo della Rocca di Angera, lui l’aveva furtivamente spostata dietro il tronco di un grosso ippocastano per sfuggire a sguardi indiscreti e l’aveva baciata. Lei aveva subito creduto di amarlo.

Poi, rimasta sola, aveva pensato a Poldo e si era chiesta a lungo quale dei due amava di più. Avrebbe tanto desiderato che anche Poldo venisse a baciarla. Non era forse amore quello?
Quando, il mese prima, Caterina aveva dichiarato a sé stessa di volerlo sposare anche a costo di mettersi contro la volontà dei propri genitori, lei non dubitava della disponibilità da parte del giovane. La verità delle sue parole e il tono stesso della sua voce avrebbero abbattuto le eventuali barriere sociali superate anche dalla luce dei suoi occhi, gentili e buoni.

“Sposarmi?” si era detta fingendo incredulità. Era ormai il tramonto, il sole nascosto dalle nuvole gettava una strana luce e dalle aiuole del giardino si levava un profumo intenso d’erba e di fiori.
La signora Ernesta, la mamma di Caterina, è una donna che sa cogliere facilmente anche i particolari più significativi, quelli che appaiono involontariamente sul volto delle persone o che tradiscono con uno sguardo o un impercettibile movimento della mano, gli stati d’animo più riposti.

A lei non è sfuggita l’attenzione di suo figlia per un giovane che capitava d’incrociare sotto i portici della piazza. I suoi timori di madre si sono confermati per l’agitazione e la serenità dimostrate da sua figlia. “Questo o è amore o qualcosa che gli è molto vicino.” Riflette “Occorre prendere un provvedimento urgente.”

L’ambizione e la galanteria sono l’anima stessa dei salotti di Milano e di tutto il corollario territoriale a cavallo del Lago Maggiore e delle sponde del Ticino che coinvolgono egualmente uomini e donne. Sono in gioco tanti interessi e tanti intrighi e il mondo femminile vi ha così tanta parte che l’amore è sempre congiunto alla politica, e la politica all’amore! Nessuno può essere tranquillo o indifferente: si pensa solo ad innalzarsi, a riuscir graditi, a servire una causa o a nuocerle; né è lecito annoiarsi o stare in ozio, poiché si è sempre catturati dai piaceri o dagli intrighi.

Le dame possono coltivare una simpatia particolare per la contessa, per la marchesa, per la duchessa di turno. Tale simpatia può nascere da un’inclinazione naturale, da ragioni di convenienza o da semplici analogie di temperamento. Quelle che hanno ormai passato la prima giovinezza e che fanno professione di una virtù più austera, sono legate ai ranghi più alti. Le più giovani, alla ricerca della gioia e della galanteria, fanno la corte agli ufficiali che pullulano nelle vari salotti.

Così, alla corte dei Pallavicino, i partecipanti sono di solito in preda ad un’agitazione preordinata, che la rende indubbiamente molto piacevole, ma anche molto pericolosa per una giovinetta. La signora Ernesta intravede tale pericolo e non ha altra preoccupazione che quella di tenerne lontana la figlia. Le serate a Borgomanero, Oleggio e Novara sono molto più compassate e tranquille mentre dall’altra sponda arrivavano venti di turbamento. Aveva più volte pregato Caterina, non tanto come madre ma come un’amica, di mettere da parte tutte le galanterie di cui fosse oggetto.

L’attenzione che Caterina mostra di provare per quel giovane alto, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi turchesi, non la impensierirebbe più di tanto se non conoscesse così bene sua figlia.
Lei capisce quando la sua Rita vuole soltanto divertirsi, quando le cose le fa e le dice in preda a un’improvvisa animosità e quando, invece, intende seriamente conseguire un risultato.

Lo scorso anno aveva voluto per forza rimanere dai Pallavicino più del necessario. Lei aveva saputo che intendeva seguire gli spettacoli nei vari teatri di Milano, Lodi e Vigevano di una giovane attrice che aveva conosciuto a Novara.

Lei l’aveva lasciata fare anche dopo aver scoperto che il fine era il bel cameriere della Marchesa Cornelia. Aveva capito benissimo cosa spingeva sua figlia verso quel bel giovane e non se n’era data eccessivo pensiero. Le differenze di casta hanno una loro ferrea disciplina.
Quando Caterina era tornata a casa, un mese dopo, del fatto non s’era nemmeno parlato e tutto era seguito come se nulla fosse successo.

Ma adesso le cose stanno cambiando. Questa volta no, questa volta è diverso, come differente è l’atteggiamento di Caterina rispetto all’amico di Arona e ai vari nobili, simili a questuanti, che snocciolano richieste alla madre per avere l’onore e il piacere d’incontrare Caterina.

                                                                             VI
Giusto il tempo per gettare un’occhiata di terrore a quanti lo guardano e lo chiamano e lo incitano a non arrendersi. Appare un attimo anche lasinella, che poi subito scompare di nuovo, trascinata via dai gorghi limacciosi del Ticino.

Poldo emerge ancora un paio di volte, si agita, chiama aiuto, la bocca piena d’acqua.

Scompare.
Il suo corpo gonfio viene ritrovato dieci giorni dopo nel fango, tra i grossi massi nell’ampia ansa che il Ticino disegna nei pressi di Vizzola Ticino, nascosto tra i verdi rami di un canneto.