UNA CITTÀ SENZA LUCE

11 marzo 1630: a Mantova infuria la peste e Carlo Gonzaga di Nevers, su sollecitazione di Monsignor Belotti, fa voto di porsi sotto la protezione della Madonna con processioni e messe cantate. Da otto mesi la città, che è anche assediata dai Lanzichenecchi inviati dall’Imperatore, resiste ma è stremata.
La peste continua a decimare gli abitanti e la mancanza di pane provoca tumulti. Si contano quasi duecento morti al giorno. Pochi medici sono sopravvissuti e la stessa corte gonzaghesca sembra popolata da fantasmi.
E’ una città senza luce.
Le ruote rumoreggiano sul selciato, il carro sobbalza, i corpi irrigiditi dalla morte fremono e sembrano ancora un po’ vivi.
Il cavallo sbuffa e nitrisce, china ripetutamente il muso e pare rispondere al monatto che lo regge per la cavezza e lo incita a muoversi, con la sua voce acuta che non serve, perché l’animale sa che deve andare, che deve fare presto, senza tregua, per poi tornare e ancora andare lungo il ponte che attraversa il Mincio dove, in questo tratto, forma un vasto lago.
Le ruote rumoreggiano e Olindo ne sembra fiero. S’impettisce e un ghigno d’orgoglio si modella sul suo volto perché tutti si spostano al suo passare, chinano gli occhi davanti a lui e molti si fanno il segno della croce. Coi capelli ispidi e scompigliati, i luridi braconi a strisce rosse, avanza con spavalderia, come se soltanto agli altri, ai “comuni mortali” tocchi in sorte la disgrazia della peste.
Se ne ride lui, che viene dalla Val Camonica, di questa roba da città! L’ha detto anche al medico condotto, al dottor Maisenti, che non ha paura, lui. E al medico, che si affannava con raccomandazioni e premure, ha risposto con una risata delle sue.
Le ruote rumoreggiano sull’acciottolato e il carro sobbalza mentre attraversa la grande piazza davanti al Palazzo del Capitano. Davanti alla chiesa c’è una piccola folla di fedeli che chiedono la grazia al Santo.
Olindo passa e ghigna con irriverenza davanti al dolore e al terrore. Guarda la piccola folla stipata sotto le arcate dei portici e incontra gli occhi di lei, che l’osservano. Dosolina abbassa subito lo sguardo, ma lui ancora la fissa, passa oltre, si gira all’indietro per continuare a guardarla, alza la testa e ride come rivolto al cielo.
Lei, non ha più lacrime da piangere e i suoi occhi, non gonfi né rossi, ma lucidi e luminosi di pianto e di giovinezza, seguono il monatto che si allontana, col carro carico di squallore e di morte.
Prima di svoltare l’angolo e imboccare la strada che porta dall’altra parte del fiume, Olindo dai capelli ispidi e scompigliati alza ancora una volta il viso al cielo, e ride un verso che pare un’imprecazione.
Con il visetto attonito e spaurito, i grandi occhi lucidi di bimba, i capelli corti color del miele, la boccuccia appena socchiusa, Dosolina osserva il carro svoltare, lambendo a destra la torre di San Giorgio e quell’immagine di morte, che tante volte ha già visto, ancora le pare nuova e terribile.
Vorrebbe piangere, ma di lacrime non ne ha più. Dosolina si sposta dalla colonna cui si era abbandonata e con passo incerto attraversa la piazza e si dirige verso il ghetto, nei pressi della chiesa di Sant’Andrea e della Rotonda. Le campane martellano nell’aria un rintocco cadenzato che vibra dolore e preghiera e tutto è desolazione, paura, orrore.
L’uomo, che d’improvviso si fa sulla soglia, la spaventa. Ha il volto contratto dal dolore e dalla paura, la guarda inebetito dalla febbre, le si fa incontro allungando un braccio verso di lei: “Ho sete, un poco d’acqua, fanciulla dolce e buona”.
Ma Dosolina non ha acqua e accelera il passo. Presto per quell’uomo si aprirà la Porta di San Giorgio, e a lui sarà consentito di lasciare la città per l’ultima pietosa dimora.
“Bisogna essere prudenti e attenti”, pensa, “non c’è più vergogna”. Ha saputo di quei signori, gente degna di stima, cittadini nobili, che si aggiravano ebbri di vino per aggredire senza pudore e senza decoro, invasati e storditi dalla frenesia che precede la morte. Anche di donne ha saputo, inebriate di scelleratezza, che si concedevano senza pudore.
La giovane raggiunge le Pescherie, aggira la torre di San Domenico e si porta al prato lungo il rio. Il prato è gremito di gente; gente pia, gente sporca; monatti e provveditori. Accatastano abiti, oggetti personali contaminati, libri e lenzuola in grandi pire di fuoco che arde e divora con ansia purificatrice e lo zolfo si spande col fumo nell’aria e Dosolina pensa che l’inferno non sia poi tanto dissimile.
Uno sbuffo di vento le porta l’odore nauseabondo dei roghi e dello zolfo e le arruffa un poco i capelli corti color del miele. Su un lato, lungo una palizzata, giacciono i cadaveri, poveri corpi irrigiditi e abbandonati che attendono il ritorno del monatto col carro rumoroso e il cavallo che conosce la strada, per il trasporto e la sepoltura, comune come la morte.
Oggi, 11 marzo anno del Signore 1630 … la fanciulla ricorda un altro marzo della sua vita, un marzo che ora le sembra così lontano… Un marzo che aveva nell’aria i profumi teneri della primavera e l’allegria d’altre campane, d’altri rintocchi festosi che sapevano di garriti di rondini, di erba, di acqua e d’amore. Ricorda le passeggiate giù al Lago Inferiore e i rosari recitati al soffio del vento alla Madonna delle Grazie di Curtatone.
E la mano di lui stretta alla sua, di lui che corre con lei per un gioco che non è un gioco, e i cuori che scoppiano nei petti per un affanno che non è solo affanno di correre, e un bacio furtivo che non è poi un bacio, gli occhi chiusi per non vedere. Un altro marzo così lontano, così lontano…
Dosolina giunge al lago, dove sempre tutto è desolazione. Da alcune case esce lo zolfo, ancora zolfo! Quando, giusto l’anno passato, lui l’aveva lasciata, come al solito, con la delicatezza e la dolcezza di una buonanotte. Ma quella volta se n’è andato per sempre e lei ha pianto tanto tutte le sue lacrime ha pianto. E ancora vorrebbe piangere e non sa dove andare, non sa dove poter restare. “Dio”, aveva pregato, “mi rivolgo a Te come all’amico. Un amico, se è amico, ti aiuta, te la dà una mano.” Ma la sua preghiera, inspiegabilmente, non era stata accolta e la morte era scesa a prenderlo e se l’era portato via sottraendolo a lei che l’amava.
Anche lui l’amava, d’un amore cosi tenace e cosi discreto vero e dolce… Sarebbe voluta fuggire da quell’inferno, da quel luogo di dolore, ma le Porte sono chiuse, le inferriate insuperabili. Solo il ponte di San Giorgio, per le buche dei morti, è la via d’uscita. Due monatti, passandole accanto, la distraggono dai suoi pensieri: portano la secchia dell’acqua per chi ha sete e la guardano con i loro volti contriti e tristi di uomini che hanno conosciuto il dolore. Mantova, lentamente, sembra morire.
Chi non ha avuto ancora nella propria casa la visita di questa peste, di questa morte nera che è giunta da lontano a umiliare, mortificare, punire? Dosolina, dai corti capelli color del miele e dai grandi occhi lucidi di pianto e giovinezza, ha un brivido e lentamente ancora si muove e sale la stradina acciottolata buia che riporta in Piazza delle Erbe. Solleva lo scialle rosso a coprire il capo e si passa una mano sul volto ad asciugare lacrime che non ci sono.
Anche nella grande piazza, nella sua desolazione, si respira l’aria di morte che sa di zolfo e di fumo. Dalle finestre del Palazzo del Capitano escono urla e lamenti di dolore. Grida qualcuno che non vuole morire e piange e implora. Forse… se la morte lo coglie prima…
Sotto i portici ancora cadaveri irrigiditi e mostruosi che attendono, e l’odore è acre, quello di zolfo e quello di morte. Anche chi si muove per la strada si muove per la morte o nella morte.
Alcuni uomini, vedendola, la chiamano, lei china il capo, accelera il passo, non risponde ed essi ridono e ancora qualcuno la chiama; ancora qualcuno grida dalle finestre socchiuse, invocando la morte.
Anche lui, prima di lasciarla, aveva invocato la morte. Le campane di San Pietro iniziano a vibrare anch’esse, potenti e tristi. “Ti amerò ancora, ti amerò sempre”, le aveva detto in un ultimo istante di lucidità, prima di spirare. E queste parole, per un attimo, l’avevano rassicurata, come se la morte di lui non fosse un distacco definitivo, ma solo una partenza, una separazione momentanea.
Dosolina si affretta; il suo volto si contrae in una smorfia, un groppo doloroso le soffoca la gola e un singhiozzo profondo le scuote il petto. Dai suoi occhi grandi di bimba, due piccole gocce di pianto scendono rapide a rigarle il viso. “Ti amerò ancora, ti amerò sempre… ” con una speranza…
Tenendo il cavallo per la cavezza il monatto, di ritorno, ha ancora sulla bocca il suo ghigno beffardo. Il carro, vuoto, sobbalza e le ruote rumoreggiano sul selciato.
Guardando verso il cielo, Dosolina prega perché questa lontananza dal suo Leonardo possa finire presto in modo da poterlo riabbracciare lassù e, insieme, saltare felici tra una nuvola e l’altra.
Un viaggio verso la luce.